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Pubblichiamo anche nel nostro blog il bell’articolo di Gianmarco Machiorlatti, comparso sul numero di febbraio, all’interno del nostro dossier sulla crisi economica. Gianmarco – oltre ad essere un nostro caro amico – è direttore dell’Ufficio Diocesano per i Problemi Sociali e del Lavoro.

Non è facile spiegare questa crisi economica. Non è facile spiegare da dove viene, dove sta andando e dove porterà. Come tutte le crisi, è un momento di cambiamento e come tutti i momenti di cambiamento piccoli e grandi non investe solo l’economia, ma tocca l’esistenza e le abitudini di tutti, anche se con impatti differenti.

Per raccontarla bisognerebbe pensare ad una grande festa, una festa che piano piano si trasforma in una grande bolgia. Una festa come quelle che si danno nelle riadattate ville del passato dove i partecipanti (invitati, camerieri, cuochi, musicisti…) presi così tanto dai bagordi perdono il senso del tempo e dello spazio e alla fine anche del perché sono lì a fare festa.

Sembrerà impopolare e cinico parlare di festa quando tanta gente rischia il lavoro a causa degli effetti di questa crisi, ma la similitudine ci aiuta a capire. Ci sono gli organizzatori (pochi) che ingurgitando champagne e caviale, decidono il menù e il ritmo della festa, poi ci sono gli invitati a vario titolo… e gli immancabili imbucati. A corredo, quelli che sfacchinano, le maestranze per intenderci. Nonostante le differenze di ruoli, negli sguardi di coloro che popolano la bella villa e il suo parco si percepisce un tacito accordo, una silente accondiscendenza poiché si sa, se coloro che decidono il menù tendono a conservare il loro potere, cuochi e camerieri si prodigano per raggiungere ruoli di maggior prestigio con la consapevolezza che qualche bicchiere di champagne e un po’ di caviale ci sarà sempre anche per loro e che alla fine – anche se dovesse andar male – dalla villa nessuno li potrà cacciare.

Ai cancelli, decine di migliaia di occhi scrutano la festa da tempo indeterminato e si affollano sempre più nella speranza di parteciparvi. Sulle colline circostanti milioni di esseri umani che arrancano per sopravvivere e per i quali la festa nella villa non è che una lontana eco – per alcuni lontanissima, per altri completamente inesistente – di rumori incomprensibili, ma che nel loro immaginario appare come la vera via da percorrere.

Non è questione di essere anti-capitalisti, tutt’altro, è questione di rendersi conto di quanto potere hanno assunto oggi non nella vita pubblica, ma nelle nostre singole vite il denaro e la finanza (champagne e caviale) rispetto all’economia reale, alla produzione del necessario: siamo al totalitarismo del superfluo. E la crisi sembra non scalfirlo, se infatti guardiamo agli ultimi interventi di sostegno adottati dai governi, agli slogan e alle proposte, torniamo ancora a parlare di crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo) come unica via. Il PIL di una nazione cresce se si compra e se si vende e se lo si fa in modo massiccio: quindi la solita vecchia risposta. Siamo una civiltà che da una parte invita a riciclare – che significa non solo mettere la spazzatura nel posto corretto, ma anche aggiustare, riqualificare, ristrutturare… – e poi scopriamo che per risolvere la crisi ci vuole maggiore produzione e maggior consumo.

Allora per far si che ci siano maggior lavoro e benessere bisogna vendere tantissimo e comprare tantissimo, consumare il più possibile e quindi riciclare il meno possibile. Ma qualunque animo semplice capirebbe che tra le due cose c’è una contraddizione. E allora? Allora forse è tempo di rivedere la nostra partecipazione alla festa e chiedere a tutti, compresi quelli che la organizzano, di fare altrettanto. Magari cominciando o ricominciando dalla terra. Dal cercare di tornare a chinarsi verso la terra e pensare al necessario, alla produzione con i tempi e ritmi giusti – non solo quella agricola –, alla pazienza delle stagioni e alla fine della proliferazione dei centri commerciali e dei supermercati. Alla fine del dominio delle borse e delle banche e al ritorno del lavoro fatto per vivere e non il vivere per il lavoro. Certo tutto questo ha dei costi: in benessere, comodità, viaggi, vacanze, mode e forse salute e sicurezza, ma indubbiamente i benefici possono essere inestimabili e imprevedibilmente globali poiché si andrebbe ad investire in natura e quindi in umanità, visto che l’una non può prescindere dall’altra.

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