Come promesso sul numero di ottobre-novembre (da oggi distribuito in parrocchia), ecco per voi la testimonianza integrale del nostro amico Giovanni Calapaj. Giovanni è un ragazzo siciliano che quest’estate è partito per il Madagascar insieme ad altri missionari salesiani.
Buona lettura!
Una foto di Giovanni
Sarei disonesto con me stesso se cercassi di raccontare la mia esperienza estiva tra i missionari Salesiani in Madagascar tralasciando di considerare che tale evento si colloca all’interno di un cammino intrapreso quasi dieci anni fa e che mi ha portato ad una consapevolezza profonda di cosa significhi missione ad gentes. Mi verrebbe da dire “niente di nuovo sotto il sole”, nel senso che durante la mia permanenza in terra di prima evangelizzazione, ben lungi dal subire chissà quali “rivelazioni”, ho trovato amara conferma alle conclusioni cui sono giunto durante il mio cammino missionario: la gente ha sete di Dio ed è preciso obbligo di ogni battezzato annunciarlo a chi ancora non lo conosce.
Dove sta l’amarezza? Principalmente nel fatto che mancano proprio i missionari. Mancano perché noi cristiani benpensanti dell’Occidente ricco (non solo di beni materiali) abbiamo ridotto l’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini della terra ad un aspetto quasi marginale della nostra vita, ripiegandoci penosamente sulle nostre problematiche, magari consumandoci le rotule sugli inginocchiatoi, attingendo a volte in maniera routinaria ai sacramenti e partecipando a corsi di formazione, esercizi spirituali e a quant’altro ci viene offerto senza tuttavia che una piccola parte delle nostre preghiere sia per chi, dopo duemila anni attende ancora la Lieta Novella.
Pensiamoci bene: quanto preghiamo per i missionari e per le genti cui sono inviati? Quanto ci informiamo sullo stato delle missioni? Quale è il grado della nostra “ansia missionaria”? Quando celebriamo l’eucarestia o sperimentiamo la gioia che viene dalla Grazia sacramentale pensiamo a chi ancora non può godere di tali consolazioni? Quante volte abbiamo sentito dire o abbiamo detto «se non avessi avuto la fede in quel momento così difficile, non so come avrei fatto!». Ma quando rendiamo grazie per un simile dono, ci rendiamo conto che ancora quattro miliardi di persone, vivendo spesso in condizioni di estrema miseria e di degrado, non hanno neanche la speranza?
Qualche anno fa, un missionario in Africa, si sentì rivolgere da un ragazzo appena battezzato una frase del genere: «piango per la grande gioia che mi avete regalato, annunciandomi che sono figlio di Dio. Figlio di Dio! La mia vita è radicalmente cambiata… Ma piango anche per un grande dolore: i miei genitori sono vissuti come schiavi, senza alcuna luce di speranza. Voi dove eravate quando sono morti?». In questa frase, che mi ha tolto il sonno quando l’ho sentita, c’è tutta la dimensione e l’urgenza che Cristo, salvatore dell’Uomo sia annunciato a tutti!
E ancora, mi vengono in mente quei malati di lebbra che muoiono quotidianamente di stenti in condizioni di isolamento ed abbandono, rifiutati dalla società e dalle famiglie. Nessun conforto, nessuna speranza. Neanche da parte di quel Dio da cui credono invece di essere stati puniti per i loro peccati. E non sanno, perché ancora nessuno dopo duemila anni è andato a dirlo loro, che quel Dio ai loro occhi così terribile si è invece manifestato come amorevole e misericordioso, incarnandosi in un uomo che ha avvicinato ed abbracciato proprio i malati come loro.
Proprio Cristo, prima di ascendere al cielo, ha lasciato ai suoi discepoli un imperativo categorico: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc 16, 15-16); “Andate in tutto il mondo e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole…” (Mt 28, 19). Andate, predicate, ammaestrate, battezzate… Quando? Quando avete un po’ di tempo libero? Se ne avete voglia, o se non avete niente di meglio da fare? Se gli apostoli avessero ragionato così, saremmo stati freschi.
Ecco dove sta la differenza tra due concetti spesso confusi e che Papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica Redemptoris missio ha ritenuto di evidenziare con chiarezza: “Missio ad gentes” e “nuova evangelizzazione” sono due cose ben diverse perché è ben diversa la situazione di chi ha ricevuto l’annuncio del Vangelo e se ne è allontanato da quella di chi ancora non ha mai sentito parlare di Gesù.
È una prospettiva miope e riduttiva quella di chi, pur in assoluta buona fede, argomenta il proprio disinteresse per la missione ad gentes con frasi del tipo “ma perché occuparsi di quelli lontani, quando ancora c’è tanto da fare qui?”
Se un tale pensiero fosse stato preso in considerazione dagli apostoli, avrebbe di sicuro stroncato sul nascere la diffusione del cristianesimo nel mondo e tradito il chiaro mandato di Cristo.
E noi non saremmo qui a parlarne.
Ecco cosa ho visto in Madagascar, soprattutto nelle zone di prima evangelizzazione: ho toccato con mano che la gente ha voglia di incontrare Dio, di gustare la Sua dolcezza e sperimentare il Suo abbraccio. Durante la visita al villaggio di Ambakoana insieme ad un missionario, la prima cosa che gli abitanti hanno chiesto, nonostante altre necessità apparentemente più urgenti, è stato l’ampliamento della modesta struttura adibita a chiesa, perché quella esistente non basta più ad accogliere i fedeli.
Ancora, nel villaggio di Migiko la celebrazione eucaristica della domenica è stato qualcosa che mi ha commosso fino alle lacrime. Davvero un rendimento di grazie in cui la gioia palpabile, veicolata dai canti e dalle danze, era l’espressione più alta di una piccola comunità che si ritrovava a vivere un momento raro ed atteso, perché i pochissimi sacerdoti presenti in quel vasto distretto missionario raggiungono i villaggi una volta ogni due o tre mesi se va bene.
E noi? Noi ancora stiamo qui a tenerci stretti stretti i sacramenti ed a rinchiudere Gesù nei tabernacoli, ci ricordiamo dei missionari forse nel mese di ottobre, ci permettiamo celebrazioni “agonizzanti” e pensiamo che se nel mondo mancano i missionari è perché Dio si fa male i calcoli e ne chiama pochi.
Un’ultima considerazione. Ho sperimentato che alzare gli occhi verso gli orizzonti lontani ci fa inevitabilmente abbracciare con lo sguardo anche chi ci sta vicino portandoci ad accorgerci anche delle sue necessità. Al contrario, tenere lo sguardo sul proprio orticello rischia di distoglierci dalle moltitudini che ancora aspettano di incontrare Cristo. E che un domani ce ne chiederanno conto.
Giovanni Calapaj
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